ELISA POMARELLI: UN LESBICIDIO

PERCHÉ È IMPORTANTE RICONOSCERLO E RACCONTARLO

Il brutale assassinio di Elisa Pomarelli ha puntato i riflettori sulla considerazione che la società italiana ha delle lesbiche, a partire da cittadine e cittadini fino alle istituzioni.

Ancora oggi, nonostante i passi in avanti che sono stati fatti, sembra che la visibilità lesbica sia un obiettivo  ancora non pienamente raggiunto.

Quando, nel 2019 e in questi giorni, alcuni gruppi e associazioni lesbiche hanno espresso la loro rabbia e il loro dolore per questa morte, molte persone si sono indignate per l’utilizzo della parola lesbica, perché «non serve», «non possiamo presumerlo» e «[Elisa Pomarelli] non l’ha mai detto esplicitamente».

C’è stato chi ha utilizzato tempo ed energie non per chiedere giustizia, ma per affrettarsi a specificare che il lesbismo non è rilevante, come se il coinvolgimento della comunità lesbica nell’esperienza condivisa di un lutto fosse un insulto alla memoria di Elisa. 

Le lesbiche sono spesso invisibilizzate quando si parla di donne, usualmente identificate come esclusivamente etero e cisgender. 

Questo sta avvenendo per il caso giudiziario di Elisa Pomarelli: l’omicidio non è stato annoverato fra i femminicidi e ha permesso uno sconto di pena all’assassino, Massimo Sebastiani.

Le lesbiche sono invisibilizzate anche quando si parla di comunità LGBTIQ+: nella maggior parte dei casi, i media mainstream la identificano come una collettività costituita solo da uomini gay, nascondendo la ricchissima esperienza di un’infinità di soggettività differenti, tra cui le lesbiche.

La lesbofobia, insieme alla bifobia o ad altre specificità, tende a essere inglobata nel più ampio termine ombrello di “omofobia”. Succede sia nel costruire campagne per i diritti, sia nel caso di condivisibili proposte di legge, ma tuttavia la parola “omofobia” non può riassumere in sé l’esperienza di chi, in aggiunta, deve fare i conti con le oppressioni che derivano dall’essere donna o socializzata tale, oltre che da un orientamento sessuale non conforme all’ordine patriarcale eteronormativo.

Eppure la comunità lesbica è un mondo rigoglioso, autonomo e in costante movimento nell’espressione della sua soggettività, attraversato da persone non binarie, donne trans, donne con disabilità, persone razzializzate, donne cisgender che rifiutano – con i loro corpi e le loro esistenze – la rigidità dei ruoli di genere, i generi stessi e l’obbligo di eterosessualità e si collocano in uno spazio indipendente, seppure sempre interconnesso con altre, altru, altri.

È molto importante parlare di lesbofobia, perché lesbiche e lesbicx sono investite da una violenza specifica che colpisce più volte, in quanto donne o socializzate donne in modi più o meno conformi al modello dominante, in quanto non binarie e in quanto non eterosessuali. 

Il femminicidio, come da anni ripetono i centri antiviolenza e molte attiviste, non ci dice chi è stata uccisa, ma perché; così, analogamente, cominciare a parlare di lesbicidio è necessario per evidenziare il motivo di quell’uccisione, non per sapere che è morta una lesbica.

L’omicidio di Elisa Pomarelli è un dramma maturato in una società lesbofoba, il cui primo atto è la rimozione, la dimenticanza collettiva della soggettività lesbica e lesbicx.

È un lesbicidio, va riconosciuto e raccontato come tale da tutte le componenti della nostra società.

Per questa ragione è necessaria una proposta di legge come il Ddl Zan, contro le discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere, ma ancora più dobbiamo lavorare per favorire quei cambiamenti nella pratica e nella cultura che possano davvero essere un argine ai lesbicidi, ai femminicidi e a tutte le violenze di matrice omolesbobitransfobica. 

Per impedire che altre lesbiche vengano cacciate di casa, aggredite, umiliate, stuprate e uccise in quanto lesbiche, il primo passo è il riconoscimento della soggettività lesbica nella sua specificità, la sua fluidità e soprattutto la sua presenza.

Noi esistiamo.

E vogliamo restare viv* e vive.

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